Fondazione Marisa Bellisario

SI SCIOGLIERÀ IL NODO?

di Ornella Del Guasto *

Il 29 aprile a Riad, dal vertice dei ministri degli Esteri dell’Occidente e di 6 Paesi arabi (Arabia Saudita, Emirati Uniti, Egitto, Autorità Palestinese, Qatar, Giordania) organizzato per discutere la situazione a Gaza, è stata avanzata ad Hamas una proposta definita “molto generosa: 40 giorni di cessate il fuoco, e il possibile rilascio di migliaia di detenuti palestinesi, in cambio della liberazione degli ostaggi”. Grandi mediatori USA e Arabia Saudita, che ha messo in gioco il suo prestigio regionale per convincere gli altri Paesi arabi, lasciando intendere, in caso di soluzione positiva della crisi, anche la ripresa dei suoi rapporti diplomatici con Israele.

“Spero che Hamas accetti questo accordo e, francamente, tutta la pressione del mondo dovrebbe essere esercitata perché lo accetti – aveva detto il ministro degli Esteri inglese Cameron – Naturalmente Hamas e tutti coloro che hanno preso parte all’attacco del 7 ottobre in Israele dovranno lasciare Gaza affinché la soluzione dei due Stati diventi fattibile mentre un presidio valuterà l’area in cui potrebbe e dovrebbe nascere lo stato palestinese”. e illusioni sono state subito cancellate dalla secca replica di Netanyahu: “l’idea di porre fine alla guerra prima di raggiungere tutti i nostri obiettivi è inaccettabile. Noi entreremo a Rafah e annienteremo tutti i battaglioni di Hamas presenti lì, con o senza un accordo, fino alla vittoria totale”. “Israele non accetterà mai un accordo sconsiderato sugli ostaggi”, gli ha fatto eco il ministro israeliano per la Sicurezza nazionale, Itamar Ben-Gvir, leader dell’estrema destra. Ma a ruota un’altra doccia fredda è venuta dal Cairo, dove erano riuniti i dirigenti di Hamas: “è una trappola” ha sintetizzato Yahya Sinwar, il leader vicino al braccio armato del gruppo, perché non fornisce garanzie chiare su un possibile cessate il fuoco. Proposta respinta quindi, con i 2 contendenti graniticamente fermi nelle rispettive posizioni: fine del conflitto e ritiro delle truppe da una parte e minaccia di invasione per Rafah dall’altra. Anche se da Hamas resta confermata la disponibilità alla continuazione di una trattativa seria.

Eppure esperti analisti avevano notato come Netanyahu in quei giorni apparisse “sotto insolito stress” dopo ave appreso che la Corte penale internazionale (Cpt) intende emettere mandati di arresto contro di lui e gli altri vertici dello Stato con l’accusa di crimini contro l’umanità commessi nei confronti dei palestinesi. Una condanna che impedirebbe al Premier di viaggiare nei 120 Paesi che hanno aderito al Trattato e rappresenterebbe, oltre alla sua fine politica, un grave deterioramento dello status internazionale di Israele. Secondo indiscrezioni avrebbe talmente timore della decisione del Tribunale dell’Aja da esercitare una “pressione telefonica senza sosta” sugli Stati Uniti perché lo aiutino a bloccare il mandato d’arresto internazionale nei suoi confronti. Ma l’irrigidimento israeliano nuoce molto anche a Joe Biden, condizionato dalle dilaganti manifestazioni anti-Israele e pro-Palestina, in patria e all’estero, che lo accusano di debolezza verso Tel Aviv e per questo cerca di barcamenarsi confermando il suo sostegno a Israele ma esigendo chiarezza sulle sue intenzioni su Rafah e opponendosi nettamente all’invasione. A sei mesi dalle elezioni, la questione traslata nelle piazze americane rischia di compromettere la sua corsa presidenziale perché secondo i critici il fatto che la tragedia umanitaria in corso a Gaza non si fermi e che Washington non riesca a esercitare un peso sulle scelte di Netanyahu, è un sintomo del declino dell’influenza Usa nel mondo. Intanto, grazie alla diplomazia sotterranea, il 23 aprile si è riuscito a infrangere il muro repubblicano e sbloccare un pacchetto di aiuti per 96 miliardi di dollari: 61 miliardi a favore di Kiev – in forte affanno per mancanza di tecnologia controaerea – 9 miliardi di aiuti per l’Indo Pacifico (soprattutto per Taiwan) e 26 per Israele, di cui 9 per assistenza umanitaria, però con l’esclusione dagli aiuti di un battaglione formato da coloni dell’ultradestra che si è reso colpevole di violenze contro i palestinesi (condizione che aveva suscitato la protesta indignata di Netanyahu). Il principale artefice del successo, lo speaker repubblicano della Camera Mike Johnson, legale di Trump nei processi di impeachment, cattolico ultras, antiabortista, sfidando le ire dei compagni di partito, aveva deciso di “stare dalla parte della storia” riuscendo a impostare una collaborazione con la minoranza democratica di Hakeem Jeffrees che ha portato il resto dei voti.

Secondo gli analisti più maligni sarebbero anche questi aiuti tra i motivi della non immediata escalation tra Israele e Iran, che continuano i reciproci bombardamenti di droni e missili ma scelgono con cura obiettivi circoscritti per evitare un eccessivo allargamento del conflitto. Teheran ha al momento preferito minimizzare e attenuare gli attacchi, lasciando i raid nel mar Rosso al suo braccio operativo, gli yemeniti Houthi, mentre Tel Aviv non è ancora avanzata dentro Rafah limitandosi a convergere truppe e tanks sulla soglia. Oltre alla paura di perdere gli aiuti militari e umanitari promessi dagli Usa, a incidere sul più cauto passo di Netanyahu sarebbe anche la consapevolezza che la sua fortuna umana e politica è strettamente legata alla durata della guerra, incastrato tra la probabile incriminazione da parte del Tribunale dell’Aia, la stanchezza dei cittadini israeliani, sempre più furiosi per la sorte degli ostaggi, la pressione della stampa internazionale che incalza per una soluzione della crisi e le violentissime manifestazioni pro-Palestina che dilagano nelle università e piazze di tutto il mondo. Un insieme di fattori che in base all’ultimo sondaggio in patria stanno facendo crollare il gradimento tra lui e il rivale centrista Benny Ganz: il 47% degli israeliani vorrebbe Ganz premier contro il 33% a favore di Netanyahu. Ma lui è anche soprattutto ostaggio della ferrea pressione dell’ultradestra israeliana, dove militano i suoi sostenitori, che incurante, esige che le truppe proseguano la loro missione di invadere Rafah sull’estremo lembo di Gaza, su cui è puntata con angoscia l’attenzione internazionale perché vi è ammassato in cerca di salvezza un milione e mezzo di palestinesi alla disperazione, con grande preoccupazione dell’Egitto che teme di essere invaso da loro, in fuga dai bombardamenti. “La presenza militare israeliana nella zona di confine con l’Egitto, conosciuta come area D (che corrisponde alla Rafah palestinese) – ha ammonito il Cairo -costituisce una violazione del trattato di pace egiziano-israeliano firmato nel 1979 e la nostra risposta sarà decisiva”. Il mondo in subbuglio continua affannosamente a invocare moderazione ma tutte le ipotesi restano aperte perché Netanyhau, sordo a tutti ripete come un mantra di voler scacciare il nemico dall’ultima tana. Ed infatti, sfidando le pressioni internazionali, ha giocato il suo bluff assumendone il rischio. Il 5 maggio il Gabinetto di guerra israeliano ha approvato all’unanimità l’operazione a Rafah per “mettere fine alla minaccia continua di Hamas finché a Gaza non sarà sradicata”. Tuttavia, come anticipato da indiscrezioni risalenti a giorni fa, la popolazione civile è stata invitata a spostarsi “temporaneamente” dalla parte est di Rafah, da dove le truppe israeliane hanno deciso di entrare, verso “aree umanitarie allargate” dove sono stati creati accampamenti. Gli evacuati dovrebbero essere circa 100mila e vengono informati con lanci di volantini di diverso colore che indicano dove i gruppi debbano dirigersi. Pronta la risposta di Hamas: “l’evacuazione della popolazione porterà al collasso dei colloqui, poi, a sorpresa, ha annunciato la disponibilità ad accettare la proposta di “cessate il Fuoco” presentata dai mediatori dell’Egitto e del Qatar. Ma il copione è rimasto lo stesso: “è una truffa” ha detto il Premier israeliano e i lanci di missili sono tornati a bombardare il fianco orientale di Rafah.

Intanto approfittando del caos geopolitico altri attori si stanno presentando sulla scena. Tayyp Erdogan ha bloccato tutte le importazioni ed esportazioni della Turchia da e verso Israele ed è in costante contatto con i dirigenti di Hamas per cercare di intrufolarsi in prima fila nella mediazione del conflitto indebolendo il ruolo della rivale Arabia Saudita. Ma un aspetto da mettere in evidenza in questo drammatico guazzabuglio è come la Cina stia mandando avanti, anche qui da protagonista, il suo progetto egemonico nel mondo attraverso il frenetico utilizzo della tecnologia, dell’industria, della diplomazia: Il 2 maggio è partita la missione spaziale “chang’e-6 “, in cui nell’ultimo decennio Pechino ha investito un fiume di denaro, con l’obiettivo di riportare sulla terra chili di detriti lunari, minerali o elementi utili localmente ma anche per la Terra. L’accelerazione cinese ha suscitato forte inquietudine agli USA nella consolidata esperienza che gran parte di quello che Pechino definisce “progetto civile” in realtà ha quasi sempre scopi militari. Negli stessi giorni, infatti, a monito e minaccia, una flotta navale cinese staziona davanti a Taiwan e, mentre Pechino sul fronte ucraino professa ferrea solidarietà alla Russia, sul fronte mediorientale ha subito accettato la richiesta di coinvolgimento nella mediazione fra i belligeranti rivoltagli dall’Arabia Saudita. Infatti Xi Jinping ha informato in questi giorni di aver ospitato a Pechino colloqui di riconciliazione tra Hamas e Fatah – le due principali fazioni politiche palestinesi che sono separate dal 2007, quando Hamas prese il controllo di Gaza dopo un conflitto armato. È indubbio che la ricucitura dei rapporti tra le due fazioni potrebbe rappresentare un passo importante verso il ristabilimento del controllo palestinese su Gaza una volta composto il conflitto e il merito dovrà essere riconosciuto anche a Pechino in termini di future alleanze e collaborazioni. Inoltre in questi giorni il Presidente cinese, proseguendo la sua suadente strategia amicale, dopo tanti anni è tornato in visita diplomatica in Europa e in Francia ha iniziato colloqui costruttivi di collaborazione con Macron.

Ma anche la Russia sta cambiando pelle e, sentendosi forte e ben attrezzata militarmente, sta avanzando sul territorio ucraino e si dice pronta ad attaccare obiettivi sensibili nei Paesi europei, parlando addirittura di armi nucleari tattiche. Putin, forte del risultato elettorale che lo ha appena consacrato per il quinto mandato al Cremlino, nel discorso di insediamento ha dichiarato che la Russia vuole “fondare un nuovo ordine mondiale” . Per quanto poi riguarda il ruolo russo in Medio Oriente, il quotidiano La Repubblica ha pubblicato un’informazione dirompente: da poco la bandiera russa sventola sul lato siriano delle “Alture del Golan” dove dall’inizio dell’anno le forze armate di Mosca hanno creato basi militari e punti di osservazione. La presenza russa in Siria risale al 2015 ma questa è la prima volta che i russi si insediano a poche centinaia di metri dalle linee israeliane. La spiegazione più plausibile, secondo gli esperti, è che il Cremlino abbia deciso di entrare nel quadro mediorientale non solo per potenziare l’utile intesa strategica con l’Iran ma anche poter raccogliere informazioni cruciali sulle strategie e sulle armi che gli USA forniscono a Israele per poterle sfruttare all’occorrenza militarmente sulle forze ucraine. Un approccio strategico integrato a tenaglia da un lato e dall’altro verso l’Europa e la regione del Mediterraneo, come grande area di confronto con i nemici. Esempio dell’inestricabile, pericolosa intersezione ormai di tutti i conflitti, amicizie e inimicizie, sostegni, alleanze, rivalità…e delle nostre paure.

*Political and socio-economic analyst

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