Fondazione Marisa Bellisario

CINA: SORPASSO IN CURVA

di Ornella Del Guasto

Dopo l’attacco israeliano contro la sede del consolato dell’Iran a Damasco, la minacciata ritorsione di Teheran è arrivata la notte tra il 13 e il 14 aprile. Secca condanna dell’iniziativa iraniana da parte del Consiglio di sicurezza dell’ONU e dal G7 convocato dall’Italia con l’ammonimento di fermare l’escalation. Negli ultimi tempi, Teheran era apparsa defilata e invece sotto traccia stava stringendo utili e decisive alleanze soprattutto con Russia e Cina – a cui fornisce tecnologie civili e belliche avanzate – e aprendo loro la strada verso l’Occidente aiutata dagli attacchi alleati di Hezbollah in Libano, di Hamas in Iraq e degli yemeniti Houthi nel mar Rosso. Una regia, secondo il Corriere della Sera, che ha permesso all’Iran di quasi completare l’accerchiamento di Israele. È un fatto che l’iniziativa iraniana sta aprendo in Medio Oriente un altro centro di crisi.

Il precipitare degli eventi porta a una considerazione collaterale su cosa stia diventando il ruolo strategico del gruppo dei Paesi BRICS – Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica – a cui negli ultimi tempi si sono aggregati, spesso per interessi rivali, oltre l’Iran, l’Arabia Saudita, gli Emirati Uniti, l’Egitto e l’Etiopia. Messi insieme, questi Paesi emergenti a incastro costituiscono un “unicum” dotato di enormi risorse naturali, know how e posizioni di controllo strategico sui mari, tanto che neppure tanto copertamente e superando le incompatibilità, mirano a conquistare la leadership del mondo in rapida mutazione. Alcuni analisti hanno infatti sottolineato come la BRICS abbia la forza di ridurre l’influenza dell’Occidente persino in ambito Onu e questo non solo nel Consiglio di Sicurezza (ad esempio in caso di diritto di veto) ma anche nell’Assemblea Generale dove si arriva ai 2/3 della popolazione del pianeta che la pensa diversamente dall’Occidente.

In questo infuocato momento storico, il Paese più di spicco dei BRICS è la Cina che si muove sommessamente tessendo un’abile strategia diplomatica giocata su due tavoli: sta dietro la Russia, a cui fornisce tecnologie avanzate aerospaziali e civili – inserendosi in partnership nel suo disegno strategico in Ucraina, Medio Oriente e Africa (in questi giorni, il ministro degli Esteri Wang Yi e l’omologo Serghei Lavrov hanno riconfermato cooperazione strategica e sostegno reciproco) – e nello stesso tempo manda messaggi concilianti agli USA, dando alle divergenze l’aspetto di normali frizioni tra competitor. È però ben noto che il progetto del premier Xi Jinping è di sostituire gli USA nella leadership mondiale, obiettivo complesso perché anche la Cina è in difficoltà economica. Il Paese continua a combattere contro la deflazione, la diminuzione del tasso di natalità e della forza lavoro e il crollo della domanda di immobili: sempre meno persone si trasferiscono nelle città, i guadagni speculativi sugli immobili non sono più assicurati e i potenziali acquirenti di case sono riluttanti ad acquistare appartamenti in anticipo nel timore che i costruttori esauriscano i fondi prima che la costruzione sia completata. Per questo, a fine 2023 il premier cinese si è recato nella regione dell’Heilongjiang invocando come necessaria l’ascesa di “nuove forze produttive” per riprendere la corsa. La scelta dell’Heilongjiang nel nord-est non è casuale: è la regione la più povera, specchio dei problemi che ancora affliggono l’economia cinese.

La persistente debolezza della crescita dei prezzi al consumo in Cina riflette una ripresa ancora incompleta dopo tre anni di rigide politiche anti-pandemia, revocate un anno fa, ma che hanno continuato a pesare sulla fragile fiducia dei consumatori. Nel frattempo, i prezzi alla produzione sono fortemente influenzati dal costo globale delle materie prime, anche se nel 2023, uno spiraglio positivo è venuto da un leggero aumento dell’inflazione, +0,2% (ben al di sotto dell’obiettivo ufficiale del 3%). Così Xi non si ferma e ha deciso di esorcizzare le difficoltà esortando a coltivare “nuove forze produttive, un mantra che appare con ossessiva ripetizione sui giornali di Stato e nelle riunioni ufficiali allo scopo di galvanizzare la popolazione. «La Cina vuole davvero essere il leader della prossima rivoluzione industriale», scrive The Economist in una lunga analisi, ma fino a oggi la ripresa economica è rimasta debole e disomogenea e la spesa non è stata abbastanza forte da impiegare pienamente le forze produttive esistenti mentre i controlli americani sulle esportazioni di “tecnologie a rischio” hanno reso necessario trovare alternative nazionali. Secondo la filosofia di Xi Jinping, quindi, la spinta tecnologica della Cina dovrà essere più ambiziosa di quella attuale e più strettamente integrata nella produzione economica e per questo le nuove forze produttive dovranno derivare dall’applicazione della scienza e della tecnologia alla produzione. Sebbene l’ambizione del governo centrale sia impressionante, non potrà però avere successo senza l’aiuto dei governi locali, che al momento sono a corto di liquidità, e degli imprenditori privati, che sono a corto di fiducia, per cui c’è il rischio che l’ambizioso progetto di leadership sia poi annientato dalle preoccupazioni economiche più immediate.

Comunque, secondo l’Economist, finora i risultati sono stati migliori di quanto un Paese a medio reddito potesse aspettarsi e, anche se non così impressionanti come i leader cinesi avrebbero sperato, nell’e-commerce, nel fintech, nei treni ad alta velocità e nelle energie rinnovabili, la Cina è alla frontiera tecnologica e lo stesso vale per i veicoli elettrici, il cui successo le ha permesso di diventare l’anno scorso il più grande esportatore di automobili al mondo. Un’avanzata che comunque non soddisfa i leader cinesi, allarmati sia dagli embarghi tecnologici dell’America sia dai suoi recenti trionfi tecnologici perché gli ampi controlli sulle esportazioni di chip e sulle attrezzature per la loro produzione hanno rivelato la dipendenza della Cina da componenti, software e attrezzature straniere. Anche i progressi americani nel campo dell’Intelligenza Artificiale li hanno fatto riflettere. L’IA era un settore in cui la Cina pensava di essere in vantaggio ed invece i cinesi sono rimasti scioccati dall’introduzione nel 2022 di ChatGPT, un modello di linguaggio esteso sviluppato da OpenAI.

Per questo, gli obiettivi prioritari sono in primo luogo a realizzare in proprio le cosiddette tecnologie “a strozzo” – cioè quelle che il resto del mondo potrebbe cercare di negargli – per poi inventare tecnologie che il resto del mondo non ha ancora creato. A gennaio il Ministero della Scienza e della Tecnologia, insieme ad altri sei ministeri, ha pubblicato un elenco di “industrie del futuro“, molte delle quali sono ancora più innovative delle industrie strategiche emergenti del passato mentre il Governo sta incoraggiando i laboratori e gli istituti di ricerca a destinare la metà dei fondi per la ricerca di base a scienziati di età inferiore ai 35 anni, nella convinzione che abbiano maggiori probabilità di fare le scoperte di cui il Paese ha bisogno. E soprattutto i leader cinesi vogliono che le industrie futuristiche contribuiscano indirettamente alla sovranità tecnologica del Paese, fornendogli “merce di scambio” nelle battaglie tecnologiche future. Cioè se l’America minaccerà di tagliare l’accesso della Cina a un fattore di produzione vitale, la Cina dovrà essere in grado di reagire in modo analogo.

Passando poi a un altro argomento cruciale, Pechino dovrà affrontare le ambizioni e le turbolenze in politica estera, prima fra tutte la crisi internazionale su Taiwan. A gennaio Pechino ha reagito male ai risultati delle elezioni locali che hanno portato alla presidenza dell’isola William Lai con un solido passato a sostegno dell’indipendenza dell’isola. Un risultato che rischia di infiammare anche i rapporti tra Pechino e Washington. Pronta la reazione cinese: la Cina si opporrà «con forza alle attività separatiste mirate all’indipendenza di Taiwan e alle interferenze straniere». Per Pechino, l’isola è parte “inalienabile” del suo territorio da riunificare se necessario anche con la forza perché, come sostiene Xi Jinping, la riunificazione è un pilastro delle strategie di “ringiovanimento” della nazione. Taiwan dal canto suo non si è mai sentita parte della Repubblica Popolare nata nel 1949, e anche prima, per 50 anni fu una colonia giapponese e mai davvero parte organica dell’impero cinese. La seconda ragione della pretesa cinese è che, nel 1949, sull’isola trovarono rifugio i nazionalisti del Kuomintang sconfitti nella guerra civile da Mao Zedong e quindi i suoi successori pretendono di completare lo scontro di allora conquistando l’ultimo tassello. Ma per Pechino l’isola è oggi soprattutto importantissima sul piano strategico perché si trova davanti e a poca distanza dalla costa cinese in mezzo a un gruppo di isole, chiamato “Prima Catena di Isole,” che in caso di un conflitto costituirebbe un indubbio ostacolo all’uscita in alto mare della flotta cinese. Le isole formano una barriera internazionale che, partendo a nord dall’arcipelago giapponese (con in più la penisola coreana), collega Taiwan per scendere fino alle Filippine (con l’eventuale aggiunta dell’Indonesia): Paesi diversi tutti alleati degli USA in grado di fornire basi formidabili agli americani per fermare i cinesi. Pechino sa che una potenza può dirsi globale solo se ha un’egemonia sui mari del mondo e perciò per il suo rinascimento, ha bisogno che la sua flotta possa accedere liberamente agli Oceani superando la “Prima Catena di Isole”. Per questo Xi intende “rompere” al centro la barriera con la conquista Taiwan. Negli ultimi mesi, le navi della guardia costiera di Pechino hanno speronato navi filippine, colpendole con cannoni ad acqua, e puntato armi laser contro i loro equipaggi. Immediata la reazione di condanna di Washington: il presidente Joe Biden ha voluto sfruttare il primo incontro congiunto con i leader di Giappone e Filippine per bollare insieme come «tattiche coercitive e illegali» le provocazioni cinesi in una delle vie di navigazione più cruciali del mondo.

Grandi impegni, rischi e ambizioni quindi per la Cina che per imporsi come leader mondiale sta puntando sulla sfida economica e tecnologica. Non a caso i commentatori hanno recuperato la frase “sorpasso in curva” per portare ad esempio e simbolo il successo mondiale cinese nei veicoli elettrici: dopo non essere riuscita per tanto tempo a scalzare i produttori storici di veicoli tradizionali, quel successo imprevisto ha dimostrato che a volte può essere più facile fare progressi in campi non ancora conquistati da famosi e ben radicati operatori. Cogliendoli di sorpresa.

*Political and socio-economic analyst

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